Allenarsi ad essere inclusivi: questioni di genere nello sport

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In una fase storica che vede risorgere le coscienze e affrontare problemi che sembravano destinati a restare sepolti per sempre, in tema di disuguaglianze e in questo caso di genere, anche nel campo dello sport c’è da fare chiarezza. Pur essendo aumentate nel corso del tempo le opportunità di partecipazione a competizioni tradizionalmente considerate maschili, la strada da percorrere per la completa parità dei diritti tra uomo e donna, anche in questo ambito, è ancora lunga.

Siamo cresciuti guardando tantissimi ragazzi giocare a calcio in tv, ma a pensarci bene, anche nei cortili di casa nei pomeriggi dopo la scuola. E se qualche ragazza c’era, beh, era chiaramente un’eccezione. E questo non certamente perché le ragazze non fossero interessate a giocare all’aperto o fossero più pigre e sedentarie, ma per una visione della società che vedeva, e ancora in parte vede, la pratica sportiva tutta declinata al maschile. Così, se gli uomini vantano più partecipazioni nelle varie discipline sportive questo non dipende da differenze biologiche tra i sessi e che attesterebbero gli uomini come più forti delle donne per le loro caratteristiche fisiche.

L’argomentazione che affermerebbe il contrario all’interno dell’universo sportivo è, infatti, frutto di un’ideologia che confina la donna nella sfera domestica, come addetta alla cura della casa e della famiglia e a cui vengono attribuiti valori quali grazia, eleganza, armoniosità e bellezza tipici di una visione patriarcale che non lascia spazio allo sport nell’universo femminile.

Gli stereotipi negativi che colpiscono la donna sportiva

Questo sistema valoriale è sostenuto anche dai modelli proposti dal mercato in cui una donna sportiva fa fatica a rispecchiarsi: donne magre, ma senza muscoli; curate e dai lineamenti fini e non mascolini. Questa apologia della femminilità che vede le attività fisico-sportive – soprattutto quelle agonistiche – come nemiche delle donne, rende quindi difficile e coraggiosa la scelta di molte atlete di non farsi bastare solo un po’ di sana attività sportiva quotidiana per restare in salute. Nell’arena sportiva, queste donne si ritrovano così a combattere stereotipi, primo fra tutti, quello che le vede come inclini a una virilizzazione deviante e che metterebbe addirittura in discussione il loro orientamento sessuale, sottoponendole ad attacchi omofobi e a commenti d’odio in rete.

Come mostrato dalla ricerca Social Athletes condotta da DAZN, infatti, le atlete si imbatterebbero in discorsi d’odio in una percentuale nettamente maggiore (24-22%) dei colleghi di sesso maschile (4%). Un risultato che è certamente il riflesso del sessismo che si annida nella nostra società e che, se anche in misura minore a partire dal secondo dopoguerra, può solo aver agito come deterrente alla diffusione dello sport femminile affossando talenti e intralciando destini.

La strada verso una un’uguaglianza di genere nel mondo dello sport

Allora qual è il primo passo da compiere per assottigliare il divario di genere e rendere il mondo dello sport un posto più equo? Innanzitutto, a livello personale, sfatare falsi miti e combattere gli stereotipi negativi può di sicuro contribuire a sostenere la passione di tutte le giovani atlete talentuose in Italia e all’estero, favorendo, al contempo, anche l’empowerment di donne e ragazze.

Inoltre, per innescare un cambiamento di mentalità, potrebbe funzionare contrastare la tendenza dei media tradizionali nel dedicare scarsa visibilità agli sport femminili. Come? Magari attraverso il web, con la condivisione social di campagne e testimonianze che mirano a cancellare disparità di genere all’interno dell’industria sportiva. Una mossa, tra l’altro, già innescata da grandi aziende sensibili alla questione, come Adidas con la sua campagna “She Breaks Barriers”, o da chi ha fatto parte di questo mondo ed è disposto a raccontarne complessità e contraddizioni. E un esempio, in quest’ultimo caso, lo ritroviamo proprio in casa nostra, con la produzione del docufilm “Le Sfavorite – No bets on the Underdogs”, autoprodotto da due ex-sportive italiane, oggi registe, Flavia Cellini e Linda Bagalini in cui protagoniste sono proprio le storie di un’ex-calciatrice e opinionista sportiva, di un’allenatrice di boxe e di una giocatrice della nazionale di rugby.

Nel cortometraggio la messa a fuoco riguarda tutti i pregiudizi culturali che una donna è costretta ad affrontare soprattutto quando pratica uno sport considerato poco adatto al genere femminile, o ancora le disuguaglianze di cui è vittima, dalla differenza di retribuzione alla difficoltà di svolgere determinati ruoli, come quello di allenatrice e commentatrice, tutte posizioni principalmente ricoperte da uomini.

Sono tutti progetti che fanno riflettere e che ci aiutano a capire che un intervento dall’alto appare, quindi, non solo auspicabile in un mondo in cui donne e uomini hanno parità di diritti, ma come assolutamente necessario mentre ci muoviamo in avanti. Elenchiamo così qualche piccolo suggerimento in chiusura, per mettere nero su bianco cosa concretamente dovrebbe indagare e garantire un’azione che miri ad assicurare una vera e propria emancipazione femminile.

Niente di complicato: che indipendentemente dal genere e dal tipo di sport, uomini e donne, ricevano non solo la stessa attenzione dai media, ma anche la stessa narrazione; che possano usufruire dei medesimi finanziamenti; che siano pagati allo stesso modo e che i premi in denaro per i tornei femminili e maschili si eguaglino; che possano fare carriera in ogni ambito inerente al mondo dello sport o ancora che, soprattutto, possano occupare ruoli di leadership, in modo che le loro voci cessino di rimanere inascoltate. Perché sì, cari lettori, quanto scritto sopra si verifica purtroppo solo in maniera intermittente e nel XXI secolo questo è decisamente inaccettabile, perché non c’è intermittenza che possa reggere affinché ogni essere umano, uomo o donna che sia, possa brillare così come la sua natura merita.